giovedì 29 novembre 2012

"La famiglia Fang" e "Dannazione"

Partiamo da La famiglia Fang, libro che mi attirato nonostante l'orribile ma perfetta cover. Infatti mi ha subito trasmesso qualcosa che mi ha fatto pensare: "Forse questo libro è adatto a me", dopotutto le storie famigliari mi piacciono, forse perché mi ricordano la mia strana famiglia...

Comunque, La famiglia Fang è una storia molto originale - perlomeno io di simili non ne ho lette - i cui capitoli si alternano tra il passato e il presente dei protagonisti. Questa alternanza non segna solo una differenza temporale, ma una sostanziale differenza d'eventi: nei capitoli riguardanti il passato l'autore, Kevin Wilson, racconta le opere artistiche, gli scherzi e gli altri eventi che la famiglia Fang svolgeva insieme, di gruppo; in quelli presenti invece la storia viene mandata avanti.

Wilson ha scritto una storia particolare, che non si dimentica, a cui su Goodreads avrei voluto dare 3 stelline e mezzo, che ho poi trasformato in 4 dato che il "mezzo" non si può dare.

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Io sono tra quelli che adarono Chuck Palahniuk, e di certo non mi vergogno ad ammetterlo.Tra i suoi libri quello che ho amato di più è Soffocare, e da allora almeno una volta l'anno un suo libro lo leggo. Dannazione con Soffocare c'entra come i cavoli a merenda, però è di un'originalità da far venire i brividi: una bambina che finisce all'inferno, cosa tecnicamente non possibile - e che io stesso sto sfruttando in un romanzo per i più giovan.


Era da almeno un anno che volevo comprarmi questo romanzo. Infatti mi ricordo ancora la prima volta che lo vidi in libreria, in Galeria Krakowska (vivevo a Cracovia), e la cover americana che catturava i miei occhi senza volerli lasciare andare.


A lettura terminata non mi sento come quelli che vogliono scagliare una pietra contro l'autore (ho letto recensioni pessime, in giro), però non sono nemmeno tra quelli esaltati. È un libro decente, senza troppe preoccupazioni. Un buono svago.

A poor writer life, un resoconto dal Pisa Book Festival


domenica 11 novembre 2012

L'importanza del nome del traduttore in copertina

Qui davanti a me ho due copie di Delitto e castigo, una pubblicata negli Oscar Mondadori e una da BUR (Biblioteca Universale Rizzoli). La prima è stata tradotta da Serena Prina e la seconda da Silvio Poliedro.

Lo scopo di questo post è quello di sensibilizzare i lettori riguardo queste figure importantissime, e adesso vi faccio vedere perché vorrei vedere i loro nomi in copertina; mi basta il primo paragrafo del libro.

Tradotto da Serena Prina nel 1994
All'inizio di un luglio straordinariamente caldo, verso sera, un giovane scese per strada dallo stanzino che aveva preso in affitto in vicolo S., e lentamente, come indeciso, si diresse verso il ponte K.

Tradotto da Silvio Poliedro nel 1983
Al principio di luglio, con tempo caldissimo, verso sera un giovane scese dalla sua stanzuccia, che aveva in subafitto nel vicolo di S., sulla strada e lentamente, come irresoluto, si diresse verso il ponte di K.

Ora, come avete notato, entrambi i traduttori pur cercando di dire la stessa cosa la dicono in maniera diversa. Ad esempio, in quella di Prima ci sono ben due avverbi e in questo caso di Stephen King si mangerebbe le mani, nella seconda c'è una parola come "stanzuccia" che a me - e qui uso un avverbio - personalmente fa vomitare. E ho da ridire anche sul finale della frase, che io ci vedo una bella differenza tra "il ponte K." e  "il ponte di K." Ci sono ulteriori differenze, ma non mi va di proseguire in un'analisi che potete benissimo fare da soli.

Insomma, voi quale delle due traduzioni preferite? E adesso, li volete o no i nomi dei traduttori sulle copertine dei vostri libri?

PS: c'è un motivo per cui ho scritto l'anno di traduzione, rifletteteci.

giovedì 8 novembre 2012

La splendida penna di Lorenza Ghinelli racconta il mestiere di scrivere

Il suono delle parole scritte da Lorenza Ghinelli vibra piacevole e riconoscibilissimo in ogni suo libro; una melodia avvolgente, ipnotica, in grado di inserire colori vivi e forti tra le lettere stampate nero su bianco. Potrebbe persino accadere di dimenticarsi della storia in sé perché folgorati da questo quadro che prende forza sotto i nostri occhi. Per entrare in questo stato d’animo non c’è nemmeno bisogno di iniziare a leggere il primo capitolo del suo ultimo romanzo, La Colpa, basta soffermarsi sulla dedica: “A Bri, che sovvertì un’estate violenta a colpi di colore”, una frase forte, quasi fosse un pre-prologo, un amo pronto a catturare l’ignaro lettore che dovesse casualmente trovarsi tra le mani questo romanzo in libreria.
La Colpa è uno di quei romanzi che una volta letti vorresti andare a stringere la mano all’autrice, curiosare un po’ nella sua vita, conoscerla, ed è per questo che sono sorte spontanee alcune domande:
Di solito scrivi di getto o lavori a una storia per diversi mesi?
La stesura di un libro è molto simile, per me, a una gestazione. La storia mi abita per anni, anni in cui non tocco la pagina bianca, poi, quando decido di affrontarla, in genere sono un fiume in piena. Ad ogni modo prima aspetto che la storia si formi dentro me. La stesura mi richiede comunque diversi mesi.
Nel caso specifico de La Colpa, come si fa a scrivere e quindi mandare avanti un romanzo senza lasciarsi travolgere dalle emozioni? Ad esempio in molti cambiano canale quando al telegiornale sentono parlare di abusi sui bambini…
Non lasciarsi travolgere dalle emozioni è impossibile, ma è necessario imparare a gestirle, altrimenti la narrazione rimane autoreferenziale, e questo sarebbe letale. Per trasmettere quello che desidero devo prima di tutto conoscerlo, e conoscere davvero qualcosa significa avere in gran parte superato quella soglia capace di ricatapultarti in un dolore sordo. Il mio romanzo parla anche di abusi, ma soprattutto indaga strade possibili per frantumare le catene di violenza con cui alcuni dei miei personaggi sono stati allattati.
La Colpa (se mi ricordo bene) l’hai scritto tra la pubblicazione de Il divoratore per Il Foglio e la ripubblicazione per Newton Compton. Hai qualche ricordo particolare di quel periodo? Come sei arrivata a questa storia?
Quando pubblicai Il Divoratore per la Newton, La Colpa era già conclusa. La terminai quando vivevo ancora a Rimini e lavoravo come educatrice sociale. Era una storia che mi abitava da tempo, i romanzi sono una cosa privata, anzi, privatissima, le storie che portano a galla vengono per stanare le nostre parti più oscure, quelle che nel quotidiano troppo spesso siamo costretti a soffocare, o quanto meno a sedare. La narrativa è per me uno spazio immenso di libertà e riflessione, una disciplina per educare il pensiero, l’unica che accetto. Quindi, a differenza di qualsiasi altro campo in cui sperimento la scrittura, le storie dei miei romanzi mi vengono a cercare. A quel punto ho solo due strade. O fuggo, o mi calo nel fondo di me stessa.
 Il divoratore era stato venduto in sette nazioni prima ancora che Newton Compton inondasse le librerie nostrane, per La Colpa invece la vendita dei diritti all’estero come sta andando? Essere arrivata in finale allo Strega aiuta in questo senso?
Prima di vendere La Colpa all’estero bisognerà vedere come procedono le vendite de Il divoratore nei vari paesi che lo hanno acquistato. È ancora presto, staremo a vedere.
 Qualche anticipazione riguardo il prossimo romanzo?
Ti dico solo che lo sto scrivendo con un entusiasmo folle, tutte le volte che lavoro a un romanzo penso di metterci tutta me stessa, con questo sto scoprendo invece quanto di me io abbia lasciato fuori negli altri. Lo sento veramente come il mio romanzo più completo. È spero che il prossimo a cui lavorerò metta in crisi quanto ho appena affermato.
Sui giornali si parla quasi esclusivamente di Ghinelli scrittrice di romanzi, e proprio per questo motivo vorrei darti occasione di fare il punto su Ghinelli scrittrice di sceneggiature. Ti andrebbe di dire qualcosa?
Mi sono formata come sceneggiatrice, ti parlo proprio del mio percorso di studi, ma per quanto sappia scrivere sceneggiature, e la cosa mi diverta, la narrativa resta l’unica disciplina che veramente amo in modo totalizzante. Mi permette tempi e profondità impensabili altrove. Un’altra cosa che adoro fare è condurre corsi di scrittura, lo scambio che si crea, le visioni del mondo che si mescolano e si confrontano sono sempre speciali. E torno a casa con un entusiasmo rinnovato. In un certo senso riesco a conciliare la mia formazione come educatrice sociale con quella di narratrice.
 Dopo il successo della serie Il tredicesimo apostolo, ora stai collaborando anche alla seconda stagione?
Per la seconda stagione ho avuto il piacere di firmare una puntata assieme al mio amico e collega Filippo Kalomenidis, quest’inverno la potrete gustare.
Hai visto su Youtube la parodia degli sceneggiatori di Lost? State veramente seduti intorno a un tavolo a tirar fuori idee pazze e visionarie, o è solo un’idea che si fa lo spettatore? Com’è la giornata tipo dello sceneggiatore?
Quando lavoravo in Taodue con Editor interna e sceneggiatrice a tempo strapieno, era facile che si creassero atmosfere simili a Boris, ma ciò non era dovuto mai alla mancanza di professionalità del team, quanto piuttosto al dovere rispettare per contratto orari rigidi e fissi. In ogni mestiere si dovrebbe avere l’opportunità di produrre al massimo quando le idee ci sono, il restante tempo, soprattutto nei mestieri creativi, andrebbe dedicato allo studio e alla ricerca, da svolgersi rigorosamente in privato. Altrimenti il rischio è produrre storie tutte uguali. L’artista beve dal mondo, non può vivere murato in una casa di produzione.
Prima per fare questo lavoro eri di stanza a Roma, ora sei tornata a casa. Si riesce a lavorare bene anche a distanza?
Quest’anno, in seguito alla mia candidatura allo Strega e alle presentazioni quasi quotidiane del mio romanzo, ho dovuto compiere una scelta, e la mia scelta è stata quella di dedicarmi a tempo pieno alle mie idee. Proprio per questo non lavoro più come editor interna, non sono in grado di garantire una presenza quotidiana. Lavoro quindi come freelance, e la cosa, credimi, mi esalta. Con tutti i rischi che comporta, come l’assenza di uno stipendio fisso, per esempio. La vita che voglio fare mi impone diversi piccoli lavori, racconti su commissione per esempio, sceneggiature, articoli, lezioni. E un tempo infinito per raccontare le mie storie, studiare, imparare. Sono sempre stata un po’ selvatica, Roma in questo senso non potrà mai essere casa mia. Vivo a due passi dalla valle del marecchia, ho bisogno del mio wild selvatico quotidiano. Quindi, per rispondere alla tua domanda, non riesco a lavorare bene a distanza, e siccome lavorare, per me, significa scrivere, ho sentito la necessità di tornare a casa. Qui, distante da Roma, lavoro benissimo.
Si sa qualcosa dell’adattamento cinematografico de Il divoratore? Inoltre mi chiedevo: hai mai provato a scrivere una sceneggiatura per un film originale completamente frutto della tua penna?
A questa domanda risponderò tra due o tre mesi, ci sono cose che bollono in pentola…

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Di recente ho parlato anche de Il cantico dei suicidi, un racconto di Lorenza pubblicato da Newton Compton. Per leggere il post, clicca qui.

Intervista da me originariamente scritta per il settimanale Fuori Le Mura.


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